16 ottobre 2009

Scienza, Coscienza e Dio

di Peter Russell


La visione scientifica tradizionale ci dice che la scienza non ha nulla ha che fare con la coscienza o con Dio. Ma oggi le cose stanno cambiando. Ora che ha cominciato a occuparsi della coscienza, ha intrapreso un cammino che alla lunga la porterà a esplorare le profondità della mente. Questa esplorazione la costringerà forse ad aprirsi a Dio.

La grande domanda
Cosa ha a che fare la scienza con la coscienza? Pochissimo. La coscienza è un argomento problematico. Non è possibile individuarla e misurarla come un oggetto materiale e le incertezze dell’esperienza soggettiva interferiscono con i nostri tentativi di arrivare a verità universali. Perciò in generale la scienza ha deliberatamente escluso la coscienza dal proprio ambito di studio.

Cosa ha a che fare la scienza con Dio? Ancora meno. Se è inevitabile almeno accettare l’esistenza della coscienza, per quanto enigmatica, Dio invece non ha nessun ruolo nella visione scientifica del mondo. La scienza moderna ha esaminato le profondità dello spazio fino ai confini dell’universo, le profondità del tempo risalendo fino agli inizi della creazione e le profondità della struttura della materia scendendo fino ai suoi costituenti elementari. In nessuna di queste direzioni ha trovato un posto per Dio, né una prova della sua esistenza. L’universo, la scienza proclama, funziona perfettamente senza bisogno di Dio.

Questa è la visione scientifica tradizionale. Ma oggi le cose stanno cambiando. Alcuni vecchi confini si dissolvono e la scienza comincia a espandere il proprio campo di interessi.

Il super-paradigma
Quando parliamo dei limiti della scienza contemporanea è importante ricordare che ci riferiamo al paradigma attuale, non alla scienza come impresa in se stessa. Un paradigma scientifico è l’insieme dei presupposti all’interno dei quali una scienza particolare fa il proprio lavoro. La teoria quantistica, la teoria dell’evoluzione di Darwin e la teoria psicanalitica dell’inconscio sono altrettanti esempi di paradigmi.

I paradigmi cambiano nel tempo. Il concetto platonico della perfezione dei moti circolari dominò la scienza della meccanica per quasi duemila anni. Nel diciassettesimo secolo le leggi del moto di Newton divennero il nuovo paradigma. Oggi la relatività einsteiniana è considerata una descrizione più precisa del moto della materia nello spazio e nel tempo.
Disgraziatamente, come Thomas Kuhn ha mostrato nel suo magistrale libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche, i paradigmi non cambiano facilmente. Sono tanto profondamente radicati nella cultura scientifica e nella cultura della società in generale che vengono raramente messi in discussione. I dati che contraddicono la visione delle cose in auge al momento vengono trascurati o contestati; oppure, se non è possibile negarli, vengono incorporati, spesso goffamente, nel modello esistente.

I guardiani del vecchio paradigma preferiscono morire piuttosto che abbandonare i loro presupposti sulla natura della realtà. E spesso è proprio questo che succede: nuovi paradigmi emergono, non perché le persone cambino idea, ma perché gli adepti del vecchio paradigma pian piano muoiono.

Nell’attuale visione scientifica del mondo materia ed energia fisica sono la realtà primaria. Secondo questa visione, quando saremo in grado di comprendere a fondo il funzionamento del mondo fisico, avremo capito tutto, compreso il funzionamento della mente umana. Questo è qualcosa più di un paradigma che si applica a un particolare campo di studi: è una credenza comune a quasi ogni branca della scienza. È piuttosto un super-paradigma.

Mettere in discussione questo super-paradigma è una faccenda grossa. Non stupisce perciò che ogni suggerimento dell’esistenza di fenomeni come la telepatia, la chiaroveggenza, la precognizione, la guarigione psichica, l’efficacia della preghiera o altro che faccia pensare a una parziale indipendenza della coscienza dalla materia venga ignorato o deriso dalla scienza istituzionale. All’interno della visione del mondo attualmente accettata queste cose semplicemente non possono essere vere.

Cos’è la coscienza?
Se, come l’attuale super-paradigma sostiene, la coscienza emerge dalla materia, è naturale chiedersi quando sia emersa per la prima volta. Un animale, un cane per esempio, è cosciente? Per quanto ne sappiamo, i cani non sono auto-coscienti come noi, non pensano in parole e probabilmente non ragionano come noi. Ma questo significa che non abbiano un’esperienza soggettiva, come Cartesio ha sostenuto?

A quanto mi risulta, il mio cane ha una sua esperienza del mondo circostante. Chiaramente prova dolore quando si fa male. Mentre dorme a volte sembra sognare, e fa piccoli rapidi movimenti con le zampe e con le dita come se stesse inseguendo un coniglio immaginario. Dire che non ha coscienza, che è soltanto una macchina biologica priva di un qualsiasi mondo interiore, mi sembra assurdo - non meno assurdo dell’affermare che il vicino che abita dall’altra parte della strada non ha coscienza.

Quando affrontiamo questi problemi è bene tener separati due ampi, ma distinti, significati del termine ‘coscienza’. In primo luogo ci sono i vari fenomeni soggettivi ed eventi esterni di cui facciamo esperienza: percezioni del mondo circostante, pensieri, idee, convinzioni, valori, sentimenti, emozioni, speranze, timori, intuizioni, sogni, fantasie. Tutte queste cose le chiamo ‘i contenuti della coscienza’.

La coscienza come facoltà in se stessa è distinta da tutto ciò: è la facoltà di avere un mondo mentale interno in cui tutte queste esperienze hanno luogo. I contenuti della nostra coscienza possono essere diversissimi - vediamo cose diverse, pensiamo pensieri diversi, abbiamo diverse emozioni e diversi valori - ma tutti quanti abbiamo in comune il fatto di essere coscienti. Senza questa facoltà non ci sarebbe nessun tipo di esperienza soggettiva.

Possiamo pensare per analogia a un dipinto. L’immagine corrisponde ai contenuti della coscienza, la tela su cui l’immagine è dipinta corrisponde alla facoltà della coscienza. Sulla tela possiamo dipingere un’infinità di quadri diversi: ma tutti i quadri possibili hanno in comune il fatto di essere dipinti su una tela. Senza tela non ci sarebbe il quadro.

La differenza fra i cani e noi non sta nella facoltà della coscienza, bensì nei contenuti della coscienza, in ciò di cui sono coscienti. Forse i cani non sono auto-coscienti e forse non ragionano e pensano come noi. Sotto questi aspetti possono essere meno consapevoli di noi. D’altro canto, essi odono frequenze acustiche più alte di quelle che noi siamo in grado di percepire e il loro olfatto è di gran lunga superiore al nostro. In termini della loro percezione del mondo circostante, può darsi che i cani siano più consapevoli degli esseri umani.

Le origini della coscienza
Se i cani posseggono la facoltà della coscienza, ragionando nello stesso modo debbono attribuirla anche ai gatti, ai cavalli, ai cervi, ai delfini, alle balene e agli altri mammiferi. Se i mammiferi sono esseri senzienti, non vedo alcuna ragione per supporre che gli uccelli non lo siano. Certi pappagalli che ho conosciuto sembravano essere altrettanto coscienti dei cani. E che dire dei rettili e dei pesci? Non c’è nulla nel loro sistema nervoso che faccia pensare che non debbano avere un proprio mondo di esperienza interiore.

Allora dove tracciamo il confine? Anche gli insetti hanno organi di senso e un sistema nervoso: perché non dovrebbero anch’essi avere un qualche grado corrispondente di esperienza interna? Il quadro dipinto sulla tela della loro mente può essere in verità molto diverso da quello della nostra mente - meno ricco, molto più semplice - ma non vedo nessuna ragione per dubitare del fatto che un quadro vi sia.

A me sembra probabile che ogni organismo in qualche modo sensibile al proprio ambiente sia dotato in una certa misura di un’esperienza interna. Se un batterio è sensibile alle vibrazioni, all’intensità della luce o al calore, come possiamo affermare che non abbia un corrispondente grado di coscienza? Il quadro può essere l’equivalente di una debolissima macchia di colore, praticamente nulla in confronto alla ricchezza e al dettaglio dell’esperienza umana: tuttavia non completamente inesistente.

Fin dove vogliamo scendere? Possiamo dire lo stesso per i virus e per il DNA? Perfino per i cristalli e gli atomi?

Il filosofo Alfred North Whitehead ha sostenuto che la coscienza è presente fino al livello più basso. Per lui la coscienza è una proprietà intrinseca del creato. In quest’ottica, con l’evoluzione della vita non è emersa la facoltà della coscienza, bensì si sono allargate le varie qualità e dimensioni dell’esperienza cosciente, i contenuti della coscienza. Man mano che gli esseri viventi sviluppavano occhi, orecchie e altri organi di senso, i quadri dipinti sulla tela della coscienza diventavano più ricchi. Per elaborare e utilizzare queste informazioni si è sviluppato un sistema nervoso - e man mano che il sistema nervoso diventava più complesso emergevano nuove qualità: il libero arbitrio, la cognizione, l’intenzionalità, l’attenzione. Con la comparsa degli esseri umani la coscienza acquisì una dimensione completamente nuova: quella del pensiero.

In cerca di colui che pensa
Osservando la nostra esperienza interna, sentiamo che dev’esserci un soggetto, un sé che ha tutte queste esperienze, che prende queste decisioni, che pensa questi pensieri. Poiché usiamo il linguaggio per etichettare praticamente ogni altra cosa nell’ambito della nostra esperienza, ci sembra un passo naturale dare un nome a questo sé, qualsiasi cosa esso sia: lo chiamiamo ‘io’.

Ma cos’è questo sé? Com’è? Dove si trova? Il filosofo scozzese David Hume lo cercò lungamente al proprio interno, tentando di individuare qualcosa che fosse il suo vero sé. Ma tutto quel che trovò furono vari pensieri, sensazioni, immagini e sentimenti. La ragione per cui non riuscì mai a trovare il sé è che lo cercava nel posto sbagliato: lo cercava nell’ambito dell’esperienza, fra i contenuti della coscienza. Ma il sé, per definizione, non può essere uno dei contenuti della coscienza. È ciò che esperisce i contenuti della coscienza.

La sola altra possibilità è che questo sentimento che abbiamo dell’esistenza di un sé abbia a che fare con la facoltà stessa della coscienza. Ma se questo è il sé che percepiamo internamente, esso non è un sé individuale, personale. Non è un sé con delle caratteristiche e qualità. Non è una cosa che può essere percepita o conosciuta, nel senso in cui percepiamo e conosciamo altre cose. Non è un sé unico in ciascuno di noi. È qualcosa che tutti condividiamo. È la tela della mente.

Un sé vacillante
Poiché la sensazione di essere un sé individuale e unico è tanto forte, continuiamo a cercarci un’identità fenomenica. Troviamo un senso d’identità nei nostri pensieri e ricordi, nel nostro corpo e nel nostro aspetto, in ciò che facciamo e in ciò che abbiamo realizzato. Ma un tale sé è perennemente alla mercé degli eventi. Perciò ci diamo tante arie, compriamo una quantità di oggetti di cui non abbiamo veramente bisogno e diciamo una quantità di cose che non intendiamo veramente dire, il tutto per puntellare questo senso di identità fittizio.

Quando questo sé si sente minacciato, tende a mettere in moto la paura. La paura è utilissima quando abbiamo a che fare con una minaccia che riguarda il nostro essere fisico. Non dureremmo a lungo senza di essa. Ma non è una risposta appropriata a una minaccia che riguarda un’identità psicologica artificiale. In questa forma la paura non aiuta, bensì danneggia la nostra sopravvivenza, e in vari modi.

La paura induce stress e di conseguenza porta a varie malattie fisiche, mentali ed emotive. Il timore che venga leso il nostro senso di identità ci porta a giudicare le persone con cui viviamo e con cui entriamo in contatto. Una mente giudicante tende a essere critica e aggressiva, non compassionevole e amorevole. La paura inoltre porta con sé l’ansia. Andiamo in ansia per ciò che abbiamo fatto in passato e per ciò che può accaderci in futuro. E mentre la nostra attenzione si fissa sul passato o sul futuro, essa non è nell’attimo presente.

La più triste e ironica conseguenza di ciò è che l’ansia ci impedisce di trovare proprio ciò che cerchiamo. Fondamentalmente, tutti vogliamo star bene. Naturalmente vogliamo evitare il dolore e la sofferenza e vogliamo sentirci in pace. Ma una mente ansiosa non conosce pace.

Gli altri animali, privi di linguaggio e di pensiero discorsivo, non hanno bisogno di rafforzare un illusorio senso di identità e perciò non conoscono queste paure. Probabilmente si sentono in pace molto più spesso di noi.

Trascendere il linguaggio
Sembra che la medaglia del linguaggio abbia anche un’altra faccia. Il linguaggio è impareggiabile per condividere conoscenza ed esperienza. Senza di esso la cultura umana non esisterebbe. E parlare interiormente a noi stessi può esser utilissimo quando abbiamo bisogno di concentrare l’attenzione su qualcosa, analizzare una situazione o fare dei piani. Ma altrimenti gran parte del nostro pensare è completamente inutile. Quando osservo l’attività della mia mente, trovo che di un novanta percento dei miei pensieri potrei fare a meno con vantaggio.

Se metà della mia attenzione è catturata dalla voce che parla nella mia testa, quella metà non è disponibile per notare altre cose. Non mi accorgo di quello che sta accadendo intorno a me. Non odo il canto degli uccelli, il fruscio del vento e lo scricchiolio degli alberi. Non noto le mie emozioni e le sensazioni nel mio corpo. In effetti, sono cosciente solo a metà.

Solo perché abbiamo il dono del pensiero discorsivo, non significa che dobbiamo tenerlo in funzione tutto il tempo. Questo fatto è sottolineato da molti insegnamenti spirituali. La maggior parte di questi insegnamenti comprende tecniche di meditazione o di preghiera atte ad acquietare il dialogo interno e a fermare la mente. Questo è il significato letterale del termine indiano samadhi: ‘una mente in quiete’.
Una mente tranquilla è più capace di essere nel presente ed è più in pace. È lo stato naturale della nostra mente, la nostra eredità evolutiva. È lo stato di grazia al quale vogliamo ritornare, lo stato di grazia da cui siamo caduti quando il linguaggio si è impadronito della nostra coscienza.

Inoltre, dicono i saggi, quando la mente è completamente immobile riconosciamo la nostra vera identità. Come ha detto la Chandogya Upanishad tremila anni fa: “ Ciò che è l’essenza di tutte le cose, Quello sei Tu.”

Una scienza della coscienza?
La scienza ha esplorato le profondità dello spazio, le profondità del tempo e le profondità della struttura della materia senza trovare né un luogo né la necessità di Dio. Ora che ha cominciato a occuparsi della coscienza, ha intrapreso un cammino che alla lunga la porterà a esplorare le ‘profondità della mente’. Questa esplorazione la costringerà forse ad aprirsi a Dio. Non all’idea di Dio che troviamo nelle religioni attuali - che si sono distorte e impoverite nella trasmissione da una generazione all’altra, da una cultura all’altra, da una lingua all’altra - ma al Dio di cui gli insegnamenti parlavano in origine, l’essenza del nostro sé, l’essenza della coscienza.

Questa possibilità è anatema per l’attuale super-paradigma scientifico. È un po’ come quando Galielo disse al Vaticano che la terra non era il centro dell’universo. Ma se c’è nella scienza una certezza, essa è che tutte le certezze cambiano col tempo. I modelli scientifici attuali sono, in quasi tutti i campi, radicalmente diversi da quelli di duecento anni fa. Chi sa come saranno i paradigmi del prossimo millennio?

Una scienza che includesse in sé le profondità della mente sarebbe veramente una scienza unificata. Essa capirebbe l’origine ultima di tutte le nostre paure inutili, capirebbe perché non viviamo la vita nella pienezza del suo potenziale, perché non siamo in pace interiormente. Una tale scienza contribuirebbe allo sviluppo di tecnologie interiori per acquietare la mente e trascendere le nostre paure. Ci aiuterebbe a diventare padroni anziché schiavi del nostro pensiero, in modo da convivere con questo accidente dell’evoluzione traendo profitto dai suoi benefici, ma senza permettergli di riempire la nostra mente al punto di farci perdere di vista altri aspetti della nostra realtà - ivi inclusa la nostra vera natura interiore. Non è forse questo un programma che vale la pena di realizzare?
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Peter Russell, che è una delle figure di punta dello Human Potential movement, è membro dell’Institute of Noetic Sciences, della World Business Academy, della Findhorn Foundation ed è membro onorario del Club di Budapest. Fra i suoi libri:Il risveglio della mente globale. Dalla società dell’informazione all’era della coscienza (Apogeo/Urra, 2000), From Science to God, Waking Up in Time e The Consciousness Revolution (con Stanislav Grof ed Ervin Laszlo). Ken Wilber lo ha definito ‘una delle più belle menti del nostro tempo’.
Il suo web site è www.peterussell.com
Questo articolo è apparso originalmente su “New Renaissance” magazine, (www.ru.org)

Traduzione di Shantena Sabbadini.

Copyright per l’edizione Italiana: Innernet.

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8 luglio 2009

Navigare l'Infinito

Jean-Claude Koven

Mai prima d’ora c’è stato un periodo simile a questo. Mai prima d’ora è stato possibile avere un accesso immediato e personale alla ricchezza di conoscenza immagazzinata e diffusa tramite internet. Mai prima d’ora sono stati resi pubblici e disponibili tutti i segreti occulti delle società segrete. Tuttavia, questa ricchezza è una lama a doppio taglio. Su internet la libertà d’informazione permette anche la disinformazione. Non c’è modo di separare il buono dal cattivo agendo dal proprio sé egoico inferiore.

Fortunatamente, nel vostro viaggio non siete mai soli. Ognuno di noi ha accesso alla meravigliosa guida interiore che instancabilmente ci guida e illumina il nostro cammino. In questo processo voi dovete metterci tre cose: la fede nell’unità di tutta la Creazione; la fiducia nella piccola e silenziosa voce che vi chiama, e il coraggio di essere intensamente curiosi...

Se ciò che trovate può essere scritto o detto, non è quello che in definitiva cercate. Però, la parola scritta o detta può essere la freccia che indica i sentieri da esplorare. Mentre navigate, non credete a nulla. Dopotutto, credere è la forma meno evoluta del processo di conoscenza – assomiglia a un’ipotesi in campo scientifico. Non accettate nulla, perché accettando voi barattate il vostro Libero Arbitrio. Lasciatevi semplicemente guidare dalla vostra curiosità e dal desiderio di esplorare.

Ogni nuovo concetto è un trampolino: qualcuno vi fa avanzare, qualcuno vi porta a un vicolo cieco. Non serve giudicarli. Quando vi viene un nuovo pensiero, riponetelo su un ripiano della vostra mente. Se per voi ha un significato, troverà la sua strada, si collegherà ad altri pensieri ed entrerà nella vostra coscienza. Se non è così, lasciatelo andare.

Internet è una porta sull’infinito. Come non dargli una sbirciatina?
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Estratto da

20 giugno 2009

Una Moltitidine Inarrestabile

Qui il video in lingua originale sottotitolato

Paul Hawken è ecologista, imprenditore e giornalista. Dall’età di vent’anni ha dedicato la sua vita alla sostenibilità e a cambiare il rapporto tra business e ambiente. È autore di numerose pubblicazioni in cui si analizzano le prospettive di un’economia che fondi il proprio modo di operare sulla consapevolezza ecologica. (http://www.paulhawken.com/)

Il Video è la presentazione del libro Blessed Unrest pubblicato in Italia da Edizioni Ambiente con il titolo "Moltitudine inarrestabile - Come è nato il più grande movimento al mondo e perché nessuno se ne è accorto.

1 aprile 2009

Democrazia significa Governo del Popolo


di Paolo Michelotto
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Un sondaggio effettuato nel 2005 da Gallup International su 50.000 persone in 60 paesi, ha scoperto che il 63% dei cittadini pensano che i loro leaders politici siano disonesti, il 60% pensa che essi abbiano troppo potere, il 52% pensa che i leaders politici si comportino in maniera non etica e il 39% pensa che essi non siano competenti nel loro lavoro.
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La democrazia rappresentativa, ossia la forma con cui la democrazia governa nella maggior parte del mondo, comincia a mostrare i suoi limiti. I sostenitori di questa forma indiretta di democrazia, sostengono che il problema è temporaneo, causato dal ripensamento politico successivo al crollo del Marxismo nel 1989.
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Forse, ma la causa principale probabilmente sta invece nell’enorme cambiamento nelle condizioni economiche e sociali di gran parte del mondo in questo ultimo mezzo secolo. La cura ai problemi della democrazia è la democrazia diretta.
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Anche nella democrazia diretta i cittadini votano ogni pochi anni per eleggere il parlamento e il presidente e poi li lasciano a rappresentarli fino alla elezione successiva. Esattamente come nelle democrazie rappresentative. Ma in ogni momento è possibile per un gruppo di elettori, purché acquisiscano un certo definito supporto di loro pari, di porre una legge elaborata dal parlamento al giudizio di tutti i cittadini, con un referendum.
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Ancora di più, in una democrazia diretta quel gruppo di cittadini, sostenuti da altri concittadini, possono mettere a giudizio di tutti gli elettori una proposta di legge non solo non pensata dal parlamento, ma che addirittura può essere osteggiata da esso. Con lo strumento dell’iniziativa. Con il referendum e l’iniziativa, gli elettori hanno il comando sull’agenda politica sempre, non solo quel certo giorno x delle elezioni. Attenzione che il referendum e l’iniziativa, anche se a prima vista sembrano simili al plebiscito, sono in realtà diversissimi. I plebisciti sono strumenti adottati da dittatori (Hitler, Pinochet...) e da uomini di potere forti (Napoleone, De Gaulle...) per cercare legittimazione al proprio potere.
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I referendum e le iniziative sono invece scritti ed iniziati dai cittadini senza bisogno dell’appoggio del governo o anche con la sua ostilità. E’ uno strumento in mano ai cittadini per tenere a controllo i governanti, non viceversa.
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E questo è proprio ciò che accade in Svizzera, di cui parlerò nei prossimi capitoli e da poco più di 13 anni in Baviera. Gli svizzeri non hanno caratteristiche così diverse dagli altri cittadini del mondo.
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Nel 1874, quando fu introdotto il referendum opzionale, gli svizzeri erano una popolazione rurale, non molto ricca, non molto educata e nel cui interno si parlavano 4 lingue. Situazione simile a quella di molti stati europei.
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Democrazia o democrazia rappresentativa?
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Pensa a quell’aggettivo: "rappresentativa" e rifletti sul suo senso. Il concetto che sta alla base della democrazia è che tutti gli uomini e le donne adulti, dovrebbero avere una uguale parte nel decidere come il loro paese è governato. Alcuni sono ricchi, altri poveri, alcuni sono intelligenti, altri meno, alcuni amano Michelangelo, altri Picasso. Non ha importanza le differenze, essi hanno tutti pari diritti. Ora confronta questo bel concetto teorico con la realtà di gran parte del mondo democratico, dove tutti, tranne qualche centinaia di persone, non hanno funzioni democratiche eccetto quella di votare ogni qualche anno tra una varietà di partiti che propongono una lista complessa di proposte alcune delle quali possono piacere, ma altre no. E tra questi pochi voti effettuati ogni qualche anno, poche centinaia di persone decidono l’agenda politica, prendono le decisioni, governano effettivamente il paese.
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Se la guardi per quello che effettivamente è, questa non è rappresentazione. Nei lunghi periodi tra una elezione e l’altra, questo è un trasferimento a scatola chiusa di potere, da molti a pochi.
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Il sistema della democrazia rappresentativa è un sistema nato nel 19° secolo, ed era adatto per quella società e quel mondo.
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La società era divisa tra estremamente ricchi e potenti e una gran massa di poveri che trascorrevano il loro tempo nelle campagne o nelle fabbriche a guadagnarsi da vivere.
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Avevano ben poche possibilità di conoscere cosa succedeva nel mondo. L’educazione era riservata solo ai ricchi e i giornali erano troppo costosi e con circolazione limitata per formare un’opinione pubblica.
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Ma le cose sono cambiate.
  1. Oggi i britannici sono in termini reali 5 volte più ricchi di 1 secolo fa. Gli americani 6 volte più ricchi. Gli italiani 13 volte più ricchi. Questa crescita reale della ricchezza media ha fatto sì che ci sia più denaro destinato al risparmio. Così molta gente può investire in azioni, possedere una casa, un’auto e così via. Le persone che hanno proprietà si sentono più indipendenti, e persone che hanno questo atteggiamento di indipendenza sono portate a farsi le loro idee politiche personali.

  2. Anche nell’educazione le cose sono cambiate in maniera straordinaria. In gran parte dei paesi, l’obbligo di studio arriva a 16 anni. In Francia ci sono 60 volte più studenti alle superiori oggi di 1 secolo fa. E 50 volte più universitari. Negli USA ci sono 33 volte più studenti alle superiori di 1 secolo fa e 60 volte più universitari.

  3. Uno dei cambiamenti più straordinari è dovuto allo sviluppo della tecnologia digitale. Con il computer, internet, i cellulari, le macchine fotografiche e le videocamere digitali, gran parte della popolazione può conoscere quasi istantaneamente ciò che succede nel mondo. E può non solo assorbire passivamente informazione, ma anche crearla, condividerla, commentarla.
Questi tre fattori, la ricchezza, l’educazione, l’informazione, fanno sì che il cittadino possa dotarsi di tutti gli elementi per dare un giudizio ragionato su un determinato argomento. Non c’è più quindi nessuna differenza tra la qualità di una valutazione dei cittadini e quella dei suoi rappresentanti su una determinata questione. Anzi. Se infatti pensiamo al mondo reale, i cittadini scelgono meglio dei loro rappresentanti perché sulle loro decisioni non pesa la corruzione, la forza delle lobby, la costruzione della carriera politica, l’appartenenza ad una casta di privilegiati, che tanta influenza hanno sui pochi rappresentanti eletti.
Un altro fattore è decisamente cambiato nella nostra epoca. Per più di un secolo gran parte delle democrazia ha avuto una contrapposizione tra almeno un partito marxista e uno liberale. La differenza di ideologia era notevole: dal socialismo all’individualismo, dall’economia centralizzata a quella del libero mercato.Con il dissolversi dell’Unione Sovietica e dell’ideologia comunista, anche i partiti hanno mutato nome, hanno cambiato programmi. Le ideologie si sono fatte meno radicali, le differenze meno marcate. La diluizione delle ideologie ha due conseguenze:
  1. i partiti stanno diventando organizzazioni sempre meno forti;
  2. le persone cambiano il loro voto più facilmente da un partito all’altro.
I partiti amano la democrazia indiretta, mentre la democrazia diretta diminuisce ulteriormente il potere dei partiti e li pone ai margini della vita politica.
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La democrazia diretta fa diventare gli elettori più efficienti. Invece di dare le loro preferenze a un gruppo di politici piuttosto che ad un altro con le loro scelte sfumate e non sempre chiare, con la democrazia diretta l’elettore è chiamato a rispondere a domande precise, sapendo che la sua risposta contribuirà a scegliere quale legge sarà adottata.
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Dando ai cittadini maggiore responsabilità, la democrazia diretta li aiuta anche a comportarsi più responsabilmente. Dando ai cittadini maggiore potere, la democrazia diretta insegna a loro come esercitare questo potere. Li rende migliori elettori e quindi migliori cittadini.
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Gli scettici affermano che finché i cittadini scelgono tra partiti effettuano una buona scelta. Ma quando devono scegliere tra argomenti ben definiti, possono commettere sciocchezze irreparabili.
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Affronterò in dettaglio queste obiezioni nel libro, qui basta ricordare che l’evidenza dell’esempio svizzero degli ultimi 140 anni ha mostrato esattamente il contrario. Uno dei primi referendum confederali ad esempio, tenuto nel 1866, chiedeva ai cittadini se gli ebrei dovessero avere uguali diritti di residenza. E i cittadini risposero positivamente. Questa scelta che oggi è un’ovvietà, avvenne in anni in cui erano ancora legali gli schiavi negli USA e in Francia c’era un’ondata di antisemitismo con l’affare Dreyfuss.
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Ancora negli anni ‘70 del 1900, gli svizzeri respinsero norme restrittive contro gli immigrati e chi cercava asilo politico. E gli esempi sono innumerevoli.
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Molti si stanno accorgendo che la democrazia è stata per quasi un secolo in uno stato di sviluppo bloccato. Ora è giunto il momento di rimettere in moto l’intero processo e trasformare la democrazia in ciò che essa significa: "governo del popolo".

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Estratto dal primo capitolo del libro

"Democrazia dei Cittadini"


di Paolo Michelotto
[Troll Libri]

3 marzo 2009

Stavolta Sarò in Carcere

Un incontro intensissimo
con le detenute di San Vittore
di Susanna Garavaglia
Da tempo desideravo varcare la soglia di un carcere, c’era qualcosa che mi attirava lì dentro. Lo pensavo non con la leggerezza di chi si immaginava semplicemente di fare la parte dell’ospite curioso, ma avevo una forte sensazione alla quale non ero in grado di dare un nome: sapevo che se fossi riuscita a varcare quella porta avrei trovato qualcosa che mi avrebbe fatto crescere un po’.
Il momento è arrivato il 16 ottobre 2008 ed è stato il mio romanzo “
Stavolta sarò femmina” a condurmi per mano nei corridoi di San Vittore.
E’ un romanzo dalla vita propria che si sta intrufolando ovunque ed io lo seguo, curiosa di vedere a quale parte di me e della vita mi vuole aprire gli occhi.
Il momento è arrivato improvvisamente, con una email di Daniela Milano, giornalista counselor clinico che aveva curato l’editing del mio romanzo e che, quindi, ben ne conosceva il contenuto. Mi annunciava di avere organizzato un incontro con le detenute del carcere milanese.
Ecco, era arrivata l’occasione di capire che cosa mi attraesse così tanto là dentro.
Ci siamo trovati in via Filangeri con Daniela e con l’editore, Pietro Abbondanza, con la sola aspettativa di capire che cosa ci stesse offrendo questa opportunità: non certamente l’occasione per vendere libri né per farci pubblicità, ma qualcosa di più e di molto diverso dalle altre presentazioni, qualcosa che ci avrebbe, in qualche modo, trasformato “dentro”. Per questo mentre mi sottoponevo ai controlli di rito, mi sorpresi a pensare che stavo volontariamente “andando dentro” ma non solo fisicamente. Simbolicamente stavo entrando in San Vittore ed anche dentro di me: sono avvezza a questo tipo di viaggi interiori, ma cosa avrei trovato questa volta?
Una prima risposta arrivò subito quando, superati pochi sbarramenti entrai nella Biblioteca, luogo dell’incontro, e un gruppo di donne sedute attorno ad un tavolo mi accolse come se ci fossimo date appuntamento in una trattoria di campagna per mangiare qualcosa insieme.
Mi fecero spazio tra loro ma nel giro di pochi minuti ne stavano entrando altre e il tavolo venne messo da parte per sederci tutti insieme in cerchio.
Mi sentii subito accolta e iniziai a chiacchierare con la giovane donna accanto a me che mi disse il suo nome e da dove veniva. Aveva gli occhi scintillanti ed un sorriso di bimba. Ci scegliemmo subito come compagne di gioco perché iniziò tra lei e me uno scambio di battute scherzose e una collaborazione spontanea: si mise a farmi quasi da segretaria, anche se né io né lei ne avevamo bisogno.
Era un modo come un altro per iniziare a parlare la stessa lingua.
Pietro e Daniela spiegarono al gruppo che cosa fossimo venuti a fare lì, alcune di loro non sapevano nemmeno che avremmo presentato un libro ma erano arrivate con l’entusiasmo di vivere qualcosa di nuovo. Forse qualcosa che avrebbe rotto la monotonia delle loro giornate in cella, pensavo, anche se mi accorsi da subito che molte di loro là dentro hanno un lavoro e sono sempre indaffarate.
Donne dagli sguardi penetranti, sorrisi dal cuore, un benvenuto senza tante parole, senza troppi convenevoli.
Quando iniziai a parlare mi venne spontaneo ringraziarle per avermi accolta tra loro. Perché l’Accoglienza è una qualità del Femminile, ed anche la Condivisione.
Ed io stavo per condividere con loro un pezzetto di me, e tutte loro stavano condividendo con me alcune gocce della loro forte esperienza.
E mi misi a parlare delle qualità dell’Energia del Femminile, quella spinta verso la vita che è il filo conduttore dei miei quattro libri e che trova in “Stavolta sarò femmina” il suo momento di creatività fantasiosa alla quale mi sono abbandonata senza limiti né tabù.
Parlavo di libertà, di momenti di luce, di gioia di vivere, di speranza. A loro!
A quelle donne che avevano perso la libertà, che stavano relegate nell’ombra, che avevano lasciato la loro gioia in figli, affetti ed amori lontani, chissà dove, chissà da quanto tempo.
A loro che di speranza ne avevano poca quando le guardie urlavano grida di potere nei loro cuori e nelle loro pance di donna.
Ma io andavo avanti e dicevo che ognuno ha un compito nella vita, che a qualche livello sappiamo perché siamo qui, che cosa ci stiamo a fare, quali sono i nodi da sciogliere,le tematiche da affrontare. A loro!
Raccontavo tutto questo a donne di ogni età, di ogni estrazione culturale, di ogni ceto sociale che al massimo tra le sbarre avevano il compito di ricordare a se stesse che , nonostante tutto, erano ancora vive; che chissà quante volte si erano chieste tra le lacrime che cosa ci stessero facendo lì, che di nodi da sciogliere ne avevano fin troppi e che ben sapevano quale fosse la Grande Tematica da affrontare. La perdita della Libertà.
Ma io continuavo a parlare perché i loro occhi mi avevano catturato e vedevo negli sguardi l’assenso di chi forse non si aspettava che parlassi di questo ma che si sentiva in qualche modo toccata.
Eppure ero io, lì, ad essere toccata da quella loro umanità così prorompente che stava alzando vertiginosamente le energie in quella piccola biblioteca di San Vittore.
Io che prima di entrare mi ero detta che sarei stata attenta a non usare frasi come “dietro le sbarre”, “sentirsi in gabbia”, “vedere la luce” e che invece lasciavo che parole e immagini uscissero da me senza controllo né falsi pudori. Senza giudizio, né da parte mia, né da parte loro. Senza falsità né perbenismi guidati dalla paura di essere vere. Fino ad arrivare a dire loro, verso la fine, vedendo che alcune se ne stavano andando:
“Ora guardiamo un film insieme. Aspettate un secondino. Ora guardiamo un film”
“Aspettate un secondino”! Avrei potuto dire “un momento, un momentino, un attimino..” Ed invece mi è uscito dalle labbra questo “secondino”..Si sono messe a ridere, e io con loro. Non importava se avevo fatto una gaffe, non c’era spazio per gaffe tra di noi. Soltanto verità. La loro, la mia, la nostra.
Ecco, siamo stati veri là dentro, più di quanto talvolta riusciamo ad esserlo fuori. Non c’è stato spazio per ipocrisie e stupide paure di ferire, perché lì le ferite erano troppo aperte perché ci si potesse mettere un velo sopra. Ma lì le ferite aperte erano condivise.
Mi ricordai le parole di un esercizio che propongo nei miei seminari mentre a coppie i partecipanti si guardano profondamente negli occhi:
“Apritevi alla consapevolezza dei doni, della forza, delle potenzialità di questa persona. Dietro ai suoi occhi esistono immense riserve di ricchezza e di luce..doni di cui lei stessa non è consapevole Considerate quanto queste forze non ancora utilizzate possono fare per la guarigione del nostro pianeta e per la nostra vita comune. Lasciate che sorga in voi la consapevolezza del vostro desiderio che questa persona sia libera dalla paura..sia libera dall’odio..sia libero dai dispiaceri..sia libero dalla sofferenza. Quello di cui ora state facendo esperienza è una grande amorevolezza..mentre guardate i suoi occhi sentite il dolore che contengono..ci sono dispiaceri accumulati nel viaggio di questa vita..ferite e delusioni, come in tutte le vite umane..Apriteli a tutto questo.. Non potete togliere il dolore, non potete porvi rimedio, ma potete non avere paura di condividerlo.. Sappiate che state facendo esperienza di grande compassione..Ed è tutto utile per la guarigione del mondo”
Non potete togliere il dolore, non potete porvi rimedio, ma potete non avere paura di condividerlo.
Quelle donne non avevano paura di condividere il loro dolore con noi: il dolore di una vita assente dal mondo, di una vita in affitto al giudizio degli altri, il dolore di una voragine tra il presente ed un istante lontano nel tempo, forse soltanto un attimo che le ha trasformate in detenute. Il dolore del rimorso, della rabbia, della paura, della solitudine. Il dolore delle sbarre.
La rabbia perché qui è facile impazzire. La follia di quei giri di chiave che chiudono la cella quando viene il tramonto, di quei fogli da compilare per vedere un’amica, della solitudine, dell’attesa nei giorni di visita, la follia di quei pochi minuti al telefono, di tutto il non detto per non soffrire di più.
Ma forse proprio perché non avevano paura di condividere il loro dolore con noi, queste donne così paradossalmente piene di amore stavano riuscendo a contagiarci anche con la loro gioia.
La gioia di farci domande, di non capire fino in fondo come applicare nella loro vita tra le sbarre quella speranza di cui io stavo parlando ma di ammetterne la presenza ai loro stessi occhi, la gioia di poter condividere tra donne la brutalità di una modalità di relazione dallo stampo sempre molto maschile, e di poterlo dire senza essere punite.
La gioia di dissentire, di dirci “Io avrei risposto in questo altro modo” dopo averci fatto una domanda che conta nella loro vita rubata, la gioia di essere ascoltata dalle altre compagne di “viaggio”, di raccontarci per un istante il loro dolore e la paura di essere punite quando cercano di essere vere, la gioia di dirci che non ci rendiamo conto di come si stia là dentro ma anche di dirci grazie per essere andati da loro.
La gioia di mangiare con noi i tramezzini al formaggio (“Ma lo sai da quanto tempo non mangio un pane così? Sentissi quanto è duro quello che ci danno qua dentro!”), di vedere tutti assieme il video dei Free Hugs e di cantare in coro “Ma il cielo è sempre più blu”, la gioia di abbracciarci come nel video e di fare come se fossero fuori di lì, forse di vedere perfino le “coincelline” con occhi nuovi, come se fosse la prima volta, la gioia di farsi fare un autografo e una dedica da me, da Pietro, da Daniela, la gioia di dirmi “Ma lo sai che tra poco esco. Alla fine di febbraio. Sono qui da cinque anni. Non vedo l’ora”.
La gioia di salutarci un po’ in fretta ma con l’ennesimo abbraccio, perché “Tra poco è il mio turno nel call center della Telecom”, la gioia di abbracciarci di nuovo e di restare in silenzio a lungo in questo abbraccio sacro per me, sacro per loro, la gioia di abbracciarsi tra loro (“E chi l’avrebbe detto prima di iniziare questa presentazione!”), la gioia di chiederci “Ma quando tornate? Vi aspettiamo ancora!”. E la gioia di sentirci rispondere di si.


Articolo pubblicato sul N° 59 del magazine Psicodinamica

14 febbraio 2009

Innamoratevi!!!

Fate soffiare in faccia alla gente la felicità... :)

7 gennaio 2009

The Global Consciousness Project

Il "Global_Conscious-ness Project" (GCP) è un progetto internazionale che coinvolge ricercatori di istituzioni e paesi diversi, finalizzato a verificare se l'effettiva esistenza della coscienza colletiva può essere scientificamente provata attraverso misurazioni oggettive. Il progetto si fonda su esperimenti condotti in diversi laboratori negli ultimi 35 anni e dimostrerebbe che la coscienza umana interagisce con apparecchiature denominate “Random Event Generators – REGs” (Generatori di Eventi Casuali), “inducendole” a produrre schemi non-casuali.
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In un recente studio (prima dell'avvio del "Global Consciousness Project") una serie di apparecchiature REG in Europa e negli USA, durante la manifestazione di eventi su scala globale profondamente coinvolgenti a livello emotivo, hanno registrato un’attività non-casuale. Per esempio, il funerale della Principessa Diana e gli attacchi alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre hanno generato emozioni condivise e una congruenza nello stato di coscienza dei singoli indirvidui che è sembrata correlata con la struttura dei dati generati che, diversamente, sono casuali.
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Il progetto consiste in una serie di rilevatori REG distribuiti globalmente che attraverso un software raccolgono i dati e, attraverso Internet, li inviano a un server centrale. Questa rete è progettata per documentare e segnalare ogni sottile ma diretto impulso della nostra coscienza collettiva che reagisce a eventi globali.
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L’ipotesi di lavoro della ricerca è dimostrare la presenza di coerenza nella struttura nei dati distribuiti globalmente raccolti durante importanti avvenimenti che coinvolgono la popolazione mondiale.
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Durante l’elezione di Obama, già due ore prima che fosse dato l’annuncio ufficiale, i dati indicavano un significativo andamento positivo che proseguiva durante la dichiarazione delle 23:00 e il successivo discorso tenuto davanti a 125.000 persone presenti nel Grant Park di Chicago più il pubblico che lo seguiva dalla TV. Il grafico dei dati su un periodo di 24 ore, mostra un moderato andamento positivo:

Per vedere quanto abbiano influenzato la coscienza globale, i dati dell’elezione di Obama sono stati anche tracciati su un grafico e confrontati con quelli degli attacchi dell’11/9. Questo è ciò che hanno indicato:

Qui l'articolo orginale in lingua inglese.

Qui l'articolo integrale in inglese sull'analisi dei dati rilevati durante l'elezione di Obama

Qui il sito sul "GCP" dell'Università di Princenton

Qui il canale video su youtube dedicato al GCP (in inglese)

Qui e qui due articoli in italiano dal sito altrogiornale.org