3 marzo 2009

Stavolta Sarò in Carcere

Un incontro intensissimo
con le detenute di San Vittore
di Susanna Garavaglia
Da tempo desideravo varcare la soglia di un carcere, c’era qualcosa che mi attirava lì dentro. Lo pensavo non con la leggerezza di chi si immaginava semplicemente di fare la parte dell’ospite curioso, ma avevo una forte sensazione alla quale non ero in grado di dare un nome: sapevo che se fossi riuscita a varcare quella porta avrei trovato qualcosa che mi avrebbe fatto crescere un po’.
Il momento è arrivato il 16 ottobre 2008 ed è stato il mio romanzo “
Stavolta sarò femmina” a condurmi per mano nei corridoi di San Vittore.
E’ un romanzo dalla vita propria che si sta intrufolando ovunque ed io lo seguo, curiosa di vedere a quale parte di me e della vita mi vuole aprire gli occhi.
Il momento è arrivato improvvisamente, con una email di Daniela Milano, giornalista counselor clinico che aveva curato l’editing del mio romanzo e che, quindi, ben ne conosceva il contenuto. Mi annunciava di avere organizzato un incontro con le detenute del carcere milanese.
Ecco, era arrivata l’occasione di capire che cosa mi attraesse così tanto là dentro.
Ci siamo trovati in via Filangeri con Daniela e con l’editore, Pietro Abbondanza, con la sola aspettativa di capire che cosa ci stesse offrendo questa opportunità: non certamente l’occasione per vendere libri né per farci pubblicità, ma qualcosa di più e di molto diverso dalle altre presentazioni, qualcosa che ci avrebbe, in qualche modo, trasformato “dentro”. Per questo mentre mi sottoponevo ai controlli di rito, mi sorpresi a pensare che stavo volontariamente “andando dentro” ma non solo fisicamente. Simbolicamente stavo entrando in San Vittore ed anche dentro di me: sono avvezza a questo tipo di viaggi interiori, ma cosa avrei trovato questa volta?
Una prima risposta arrivò subito quando, superati pochi sbarramenti entrai nella Biblioteca, luogo dell’incontro, e un gruppo di donne sedute attorno ad un tavolo mi accolse come se ci fossimo date appuntamento in una trattoria di campagna per mangiare qualcosa insieme.
Mi fecero spazio tra loro ma nel giro di pochi minuti ne stavano entrando altre e il tavolo venne messo da parte per sederci tutti insieme in cerchio.
Mi sentii subito accolta e iniziai a chiacchierare con la giovane donna accanto a me che mi disse il suo nome e da dove veniva. Aveva gli occhi scintillanti ed un sorriso di bimba. Ci scegliemmo subito come compagne di gioco perché iniziò tra lei e me uno scambio di battute scherzose e una collaborazione spontanea: si mise a farmi quasi da segretaria, anche se né io né lei ne avevamo bisogno.
Era un modo come un altro per iniziare a parlare la stessa lingua.
Pietro e Daniela spiegarono al gruppo che cosa fossimo venuti a fare lì, alcune di loro non sapevano nemmeno che avremmo presentato un libro ma erano arrivate con l’entusiasmo di vivere qualcosa di nuovo. Forse qualcosa che avrebbe rotto la monotonia delle loro giornate in cella, pensavo, anche se mi accorsi da subito che molte di loro là dentro hanno un lavoro e sono sempre indaffarate.
Donne dagli sguardi penetranti, sorrisi dal cuore, un benvenuto senza tante parole, senza troppi convenevoli.
Quando iniziai a parlare mi venne spontaneo ringraziarle per avermi accolta tra loro. Perché l’Accoglienza è una qualità del Femminile, ed anche la Condivisione.
Ed io stavo per condividere con loro un pezzetto di me, e tutte loro stavano condividendo con me alcune gocce della loro forte esperienza.
E mi misi a parlare delle qualità dell’Energia del Femminile, quella spinta verso la vita che è il filo conduttore dei miei quattro libri e che trova in “Stavolta sarò femmina” il suo momento di creatività fantasiosa alla quale mi sono abbandonata senza limiti né tabù.
Parlavo di libertà, di momenti di luce, di gioia di vivere, di speranza. A loro!
A quelle donne che avevano perso la libertà, che stavano relegate nell’ombra, che avevano lasciato la loro gioia in figli, affetti ed amori lontani, chissà dove, chissà da quanto tempo.
A loro che di speranza ne avevano poca quando le guardie urlavano grida di potere nei loro cuori e nelle loro pance di donna.
Ma io andavo avanti e dicevo che ognuno ha un compito nella vita, che a qualche livello sappiamo perché siamo qui, che cosa ci stiamo a fare, quali sono i nodi da sciogliere,le tematiche da affrontare. A loro!
Raccontavo tutto questo a donne di ogni età, di ogni estrazione culturale, di ogni ceto sociale che al massimo tra le sbarre avevano il compito di ricordare a se stesse che , nonostante tutto, erano ancora vive; che chissà quante volte si erano chieste tra le lacrime che cosa ci stessero facendo lì, che di nodi da sciogliere ne avevano fin troppi e che ben sapevano quale fosse la Grande Tematica da affrontare. La perdita della Libertà.
Ma io continuavo a parlare perché i loro occhi mi avevano catturato e vedevo negli sguardi l’assenso di chi forse non si aspettava che parlassi di questo ma che si sentiva in qualche modo toccata.
Eppure ero io, lì, ad essere toccata da quella loro umanità così prorompente che stava alzando vertiginosamente le energie in quella piccola biblioteca di San Vittore.
Io che prima di entrare mi ero detta che sarei stata attenta a non usare frasi come “dietro le sbarre”, “sentirsi in gabbia”, “vedere la luce” e che invece lasciavo che parole e immagini uscissero da me senza controllo né falsi pudori. Senza giudizio, né da parte mia, né da parte loro. Senza falsità né perbenismi guidati dalla paura di essere vere. Fino ad arrivare a dire loro, verso la fine, vedendo che alcune se ne stavano andando:
“Ora guardiamo un film insieme. Aspettate un secondino. Ora guardiamo un film”
“Aspettate un secondino”! Avrei potuto dire “un momento, un momentino, un attimino..” Ed invece mi è uscito dalle labbra questo “secondino”..Si sono messe a ridere, e io con loro. Non importava se avevo fatto una gaffe, non c’era spazio per gaffe tra di noi. Soltanto verità. La loro, la mia, la nostra.
Ecco, siamo stati veri là dentro, più di quanto talvolta riusciamo ad esserlo fuori. Non c’è stato spazio per ipocrisie e stupide paure di ferire, perché lì le ferite erano troppo aperte perché ci si potesse mettere un velo sopra. Ma lì le ferite aperte erano condivise.
Mi ricordai le parole di un esercizio che propongo nei miei seminari mentre a coppie i partecipanti si guardano profondamente negli occhi:
“Apritevi alla consapevolezza dei doni, della forza, delle potenzialità di questa persona. Dietro ai suoi occhi esistono immense riserve di ricchezza e di luce..doni di cui lei stessa non è consapevole Considerate quanto queste forze non ancora utilizzate possono fare per la guarigione del nostro pianeta e per la nostra vita comune. Lasciate che sorga in voi la consapevolezza del vostro desiderio che questa persona sia libera dalla paura..sia libera dall’odio..sia libero dai dispiaceri..sia libero dalla sofferenza. Quello di cui ora state facendo esperienza è una grande amorevolezza..mentre guardate i suoi occhi sentite il dolore che contengono..ci sono dispiaceri accumulati nel viaggio di questa vita..ferite e delusioni, come in tutte le vite umane..Apriteli a tutto questo.. Non potete togliere il dolore, non potete porvi rimedio, ma potete non avere paura di condividerlo.. Sappiate che state facendo esperienza di grande compassione..Ed è tutto utile per la guarigione del mondo”
Non potete togliere il dolore, non potete porvi rimedio, ma potete non avere paura di condividerlo.
Quelle donne non avevano paura di condividere il loro dolore con noi: il dolore di una vita assente dal mondo, di una vita in affitto al giudizio degli altri, il dolore di una voragine tra il presente ed un istante lontano nel tempo, forse soltanto un attimo che le ha trasformate in detenute. Il dolore del rimorso, della rabbia, della paura, della solitudine. Il dolore delle sbarre.
La rabbia perché qui è facile impazzire. La follia di quei giri di chiave che chiudono la cella quando viene il tramonto, di quei fogli da compilare per vedere un’amica, della solitudine, dell’attesa nei giorni di visita, la follia di quei pochi minuti al telefono, di tutto il non detto per non soffrire di più.
Ma forse proprio perché non avevano paura di condividere il loro dolore con noi, queste donne così paradossalmente piene di amore stavano riuscendo a contagiarci anche con la loro gioia.
La gioia di farci domande, di non capire fino in fondo come applicare nella loro vita tra le sbarre quella speranza di cui io stavo parlando ma di ammetterne la presenza ai loro stessi occhi, la gioia di poter condividere tra donne la brutalità di una modalità di relazione dallo stampo sempre molto maschile, e di poterlo dire senza essere punite.
La gioia di dissentire, di dirci “Io avrei risposto in questo altro modo” dopo averci fatto una domanda che conta nella loro vita rubata, la gioia di essere ascoltata dalle altre compagne di “viaggio”, di raccontarci per un istante il loro dolore e la paura di essere punite quando cercano di essere vere, la gioia di dirci che non ci rendiamo conto di come si stia là dentro ma anche di dirci grazie per essere andati da loro.
La gioia di mangiare con noi i tramezzini al formaggio (“Ma lo sai da quanto tempo non mangio un pane così? Sentissi quanto è duro quello che ci danno qua dentro!”), di vedere tutti assieme il video dei Free Hugs e di cantare in coro “Ma il cielo è sempre più blu”, la gioia di abbracciarci come nel video e di fare come se fossero fuori di lì, forse di vedere perfino le “coincelline” con occhi nuovi, come se fosse la prima volta, la gioia di farsi fare un autografo e una dedica da me, da Pietro, da Daniela, la gioia di dirmi “Ma lo sai che tra poco esco. Alla fine di febbraio. Sono qui da cinque anni. Non vedo l’ora”.
La gioia di salutarci un po’ in fretta ma con l’ennesimo abbraccio, perché “Tra poco è il mio turno nel call center della Telecom”, la gioia di abbracciarci di nuovo e di restare in silenzio a lungo in questo abbraccio sacro per me, sacro per loro, la gioia di abbracciarsi tra loro (“E chi l’avrebbe detto prima di iniziare questa presentazione!”), la gioia di chiederci “Ma quando tornate? Vi aspettiamo ancora!”. E la gioia di sentirci rispondere di si.


Articolo pubblicato sul N° 59 del magazine Psicodinamica

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Grazie per questo articolo di Susanna, le parole le ho bevute dentro; certo non è facile con l'immaginazione pensare a tutto ciò, mi sono vista come partecipante a quell' incontro, a tutte le sensazioni ed emozioni e ora non posso che entrare nella gratitudine alla vita che mi dà l'opportunità di fare una telefonata senza limiti di tempo, o di non avere il rumore di chiavistelli.

mantraluce ha detto...

Ciao Susanna ho letto solo ora questo tuo belissimo post, queste tue riflessioni aiutano molto anche gli operatori di Luce che a volte si scoraggiano un pò lavorando in tanto grigiore. La tua bellezza ti ha portato a valicare il cancello più temuto il carcere! La raffigurazione di un girone infernale sulla terra, hai dimostrato attivamente con la tua mirabile esperienza "sul campo" che dovunque si accenda una Luce, il suo bagliore purifica qualsiasi muro di dolore e la gioia e l'abbraccio fanno sciogliere le paure e rportano speranze. Di nuovo grazie.
Cinzia Degliangeli.

Anonimo ha detto...

Che bello questo post al femminile :-)
Grazie di cuore per aver raccontato questa esperienza...
Simone

Giorgia V ha detto...

*femminino interiore*

"La mia più grossa difficoltà è scegliere chi sono
nell'infinita possibilità dei me,
ove basta un tratto, un agire certo
per definire un limite
che io non distinguo,
ma per mia natura accolgo".

giorgia

ps: grazie per il racconot. ho inserito stazione celeste fra i miei link.

Sentieri nella Luce ha detto...

Il "Viaggio" ci porta a toccare realtà diverse e a farne esperienza.
Che ogni esperienza possa nutrirci e farci crscere sempre di più.
Amore di Luce

Anonimo ha detto...

Aho Sorella!
Grazie!

Mark